Eros: quando la cornice è migliore del quadro
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“EROS” di Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh e Wong Kar Wai.
Può apparire strano, ma gli aspetti migliori di “Eros” si risolvono nelle sequenze di raccordo fra i tre episodi del film e non negli episodi stessi. Difatti, sono le fantastiche e oniriche immagini create dell’artista Lorenzo Mattotti e l’annessa, bellissima canzone di Caetano Veloso, intitolata “Michelangelo Antonioni”, a tradurre nel modo più convincente, originale e appassionante il tema unico proposto dalla pellicola: l’Eros, appunto.
Con metafora rugbystica, quindi, potrei dire che gli avanti Arte e Musica, considerati outsider, hanno raggiunto la meta per ben due volte, in forza di un gioco creativo e di squadra, al contrario del team Cinema che si è rivelato un semplice comprimario a corto di progetto, fiato e idee. Ma com’è potuto accadere tutto questo? Quando mai una “cornice”, seppure d’autore, può acquisire più rilevanza dell’opera in essa contenuta? Semplice. Questo accade quando l’autore di un’opera, confidando troppo sulle proprie conclamate capacità, si affida ad uno stile calligrafico o ad una ripetizione pedissequa degli stilemi affrontati in passato. Un grave errore di presunzione che gli spettatori, ormai più critici dei critici, non mancheranno di evidenziare nei tre episodi griffati, si fa per dire, da Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh e Wong Kar Wai.
Dell’episodio di Antonioni, “Il filo pericoloso delle cose”, quasi non vorrei parlare per quanto mi ha avvilito. Perché i film di questo maestro del cinema come “La Notte”, “Deserto rosso”, “Blow-up” e “Professione: Reporter”, per citare solo alcuni capolavori dell’autore, hanno influito moltissimo sulla mia formazione culturale. Per cui, ora, è a dir poco penoso dover affossare il lavoro di uno dei miei miti cinematografici. Purtroppo, però, l’ultimo cortometraggio firmato dal Nostro è solo l’ombra dei film precedenti. Perché in esso manca il tessuto narrativo, lo stile, la profondità, la capacità degli attori che il Michelangelo che tutti ricordiamo sapeva far scaturire dal materiale grezzo, ma vibrante, delle emozioni umane. La storia di una coppia in crisi, infatti, si dipana stancamente senza nessi logici ed i corpi nudi alla fine del film risultano come specchio di se stessi, senza legami con le esperienze, la vita, le passioni di origine sessuale e non. Un film che appare incompiuto, insomma, e che non lascia un buon ricordo del maestro. Ergo, sarebbe stato meglio non girarlo.
Il corto di Steven Soderbergh, invece, intitolato “Equilibrium”, all’inizio mostra una brillante vena ironica. E’ infatti divertente lo psicanalista che occhieggia col binocolo una sconosciuta da adescare, mentre nel proprio studio analizza il sogno ricorrente di un paziente che sogna una donna che poi non riesce a ricordare. Ma il divertimento finisce lì. In più, l’Eros non si vede neanche col binocolo (e il caso di dirlo), se non per vaghi e sfuggenti tratti, e quindi l’episodio si tramuta in una gag tronca e irrisolta. Evidentemente, Soderbergh al tempo in cui ha girato questo corto aveva di meglio da fare.
Il terzo episodio, intitolato “La Mano”, diretto da Wong Kar Wai, è l’unico del trittico che almeno rispetta compiutamente il tema dell’Eros. Ma in maniera tutt’altro che trascendentale. La mano in questione è sia quella del giovane sarto apprendista che si invaghisce di una prostituta di alto bordo, che quella della donna molto esperta in certe attenzioni assai gradite agli uomini. A parte questo, qualche bella inquadratura sui dettagli degli abiti, sulle scarpe e sulle calze della donna e… nulla più! In pratica, quello che in senso deteriore si definisce un puro esercizio di stile. Una mera pellicola d’accademia, forse sufficiente per un saggio ad una scuola di cinema, ma addirittura offensivo per un pubblico cinematografico molto più raffinato di quanto si pensi.