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Mostra antologica di Antonino Iuorio al Kubla-Khan di Roma

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Antonino Iuorio, allo stesso tempo attore di teatro e di cinema, regista teatrale, colto e raffinato cultore delle arti relazionali ricetrasmittenti, cuoco sopraffino, ospite ineguagliabile di migranti e diseredati, nonché artista visivo, con la sua arte pittorica è oggi la prova provata che se avesse dato retta alle sterili leggi comportamentali del Novecento si sarebbe chiamato artista eclettico. Invece è solo un artista globale, un uomo che vive di arte e testimonia l’arte di vivere, quello che noi chiamiamo Art Thinking: l’arte come matrice di tutte le cose.

Non c’è una storia da raccontare come quella di Iuorio così perfettamente adeguata alla più urgente delle necessità sociali del momento: la deformattazione delle categorie. Se volessimo partire dall’inizio, duemila anni fa qualcuno si inventò una storia tanto inquietante da essere convincente perché perfettamente ritagliata su alcuni elementi neurobiologici dell’Uomo. In Magna Grecia, tanto per portarsi avanti come sempre, per proteggersi dalle narrazioni inventate ad arte avevano già inventato l’ironia, il paradosso creativo che mette in discussione l’autorità costituita, fosse essa la lingua ufficiale o la religione, il regime politico o le regole in generale, facendo anch’essi leva sulla fisiologia umana: la mente ragiona per immagini, ergo dovevano creare un linguaggio che producesse un’immagine nella mente di chi ascolta così sintetica e ficcante, stimolante e divertente, che dovesse avere il potere sottile e inevitabile di abbassare le difese nei confronti delle tragedie e far entrare il problema in un colpo solo, la consapevolezza della verità vera. Da lì arrivano Eduardo De Filippo, Totò e Antonino Iuorio. Non importa che mezzo usino per esprimere denuncia sociale e senso critico: importa il nucleo dialettico.

Da Guernica a Frigidaire c’è stato ancora bisogno di chi si ribellasse al pensiero prevalente per riportare la mente al nutrimento principe, il più importante di tutti, quello più vitale, da sempre: l’arte che racconta la violenza degli argini, come direbbe Brecht, invece che quella del fiume in piena che tutti vedono e stigmatizzano in coro.

Se uno si sottoponesse alla cura necessaria dei suoi acquerelli oggi in mostra a Roma al Kubla-Khan, scoprirebbe che 40mila anni di storia dell’arte coincidono con quella urgenza espressiva che se ne frega degli argini, delle categorie, delle definizioni e si nutre, nutrendo a sua volta, di milioni di informazioni distorte per trasformarne i codici significanti e riportarle alla luce sotto altre forme, a volte politicamente scorrette, a volte solo cresciute al sole dell’intelligenza emotiva autonoma e creativa che indaga il mondo e lo disegna per come è davvero, per quel che produce, di bene o di male, nel nostro immaginario.

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