Si chiama Gelsomina (Maria Alexandra Lungu), la dodicenne di “Le meraviglie”, Grand Prix della giuria a Cannes (Italia, Svizzera e Germania, 2014, 110′).
Ma potrebbe anche chiamarsi Alice, come il personaggio di Lewis Carroll e come la stessa Alice Rohrwacher, che ne ha scritto e girato la storia. Il mondo in cui Gelsomina vive gli anni della prima adolescenza è in bilico tra la fatica quotidiana della masseria in cui il padre Wolfgang (Sam Louwyck) e la madre (Alba Rohrwacher) allevano api, e il desiderio di fuggir via, di spaesarsi in senso profondo. La sua meta potrebbe essere una Milano improbabile, fantasticata con gli occhi di una ragazzina che mai s’è allontanata dalla campagna umbra.
Oppure, quella meta potrebbe essere vicina, sull’isola che le si mostra protetta dalle acque del Trasimeno, e su cui resta la memoria degli Etruschi. Lì, una rete tv ha portato la propria meraviglia: una trasmissione condotta da una fata con cerone e parrucca (Monica Bellucci), che regala una fragile notorietà ai contadini e agli allevatori, e insieme li illude con il miraggio di un premio in denaro. Quasi mettendo la macchina da presa all’altezza (psicologica) dello sguardo della protagonista, Rohrwacher racconta una manciata di giorni di un’estate che sta per finire. La vita nella masseria scorre tra arnie da accudire e miele da estrarre.
Wolfgang ama ripetere che il mondo è sull’orlo della catastrofe, e crede fermamente che solo nella terra e nel suo lavoro ci sia ancora speranza.
Come capita a ogni fede, la sua certezza lo porta a decidere della vita degli altri – dei figli, in primo luogo – con uno zelo che non ammette curiosità. Ma proprio da questo è mossa Gelsomina, da una curiosità che d’un balzo supera i confini della masseria, oltre i quali immagina stia di casa la meraviglia, magari anche solo quella artefatta e corriva dell’illusione televisiva.
E però – così sembra concludersi “Le meraviglie” – niente è più meraviglioso che stare sotto un cielo chiaro in una notte d’estate, insieme con un padre che si è imparato ad amare, nonostante tutto.
E appunto negli sguardi reciproci tra padre e figlia, nei loro gesti, nel detto e nel non detto del loro rapporto si lascia coinvolgere felicemente la regia di Rohrwacher.
È questo il merito del film. Nella rinuncia a un ritratto compiuto di Gelsomina/ Alice sta invece il suo limite, quello di una narrazione frammentaria e faticosa in cui, più d’una volta, si perdono le sfumature profonde del suo spaesamento e della sua meraviglia.