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Roma si inchina a Neil Young. Il rocker canadese ‘sfiora il divino’

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Roma si inchina a Neil Young Il rocker canadese ha travolto il pubblico con la sua musica che sfiora il divino.

Ci sono poche certezze nella vita, poche cose in cui credere, il resto di solito sono piccole illusioni che ci aiutano a vivere meglio, a sopportare una vita troppo spesso piena di problemi, ansie, dolori.

Una di queste certezze ieri sera ha travolto ed emozionato il pubblico romano all’Ippodromo delle Capannelle: Neil Young si è esibito con i suoi Crazy Horse (e mai nome fu più azzeccato per un concerto in un ippodromo) ed è stata un’esibizione contornata da qualcosa di leggendario, quell’energia incredibile, impensabile per un uomo di quasi 70 anni stampati tra le rughe del volto, visibili nella sua andatura un po’ sbilenca, eppure ininfluenti quando c’è da dare l’anima sul palco.

Ma andiamo per ordine: la giornata è calda, appiccicosa, non il clima ideale per un concerto, la gente comincia a prendere posto nella struttura ippica, dando un’occhiata alle persone intorno a me mi rendo conto di quanto Neil Young sia stato importante con la sua musica che ha attraversato almeno quattro generazioni: numerosi i ventenni ma anche i loro padri, madri e persino nonni sono qua in attesa di lasciarsi trasportare dalla musica di questo loner, dalla sua struggente voce e dagli echi della sua chitarra elettrica. Young è stato senza dubbio uno degli artisti più influenti nel rock, senza di lui molte band non sarebbero state le stesse, forse non sarebbero mai esistite; senza la sua musica e le sue lyrics, interi movimenti musicali come il Grunge, sarebbero stati diversi, più poveri forse, (si pensi solo all’influenza che Neil ha avuto su una band come i Pearl Jam di Eddie Vedder).

Il concerto viene aperto da Devendra Banhart, cantautore texano apprezzatissimo dalla critica, il suo show non è affatto male e fonde ritmi folk e rock, a ballate di stampo brasiliano, un ottimo inizio, non c’è che dire, ascolto la musica di Banhart con gusto e soddisfazione, le premesse mi paiono ottime, peccato però che poi, dopo il concerto di Neil Young e Crazy Horse, dell’esibizione di Devendra Banhart resterà davvero molto poco, perché tutte le emozioni, le attenzioni, i ricordi, saranno rivolti all’artista canadese.

Il concerto inizia puntuale alle 21:45, le luci si spengono, sul palco campeggia il logo enorme del cavallo pazzo, lo stesso logo è stampato sulla batteria di Ralph Molina, la gente aspetta con ansia l’ingresso dei quattro musicisti, arrivano ed è il delirio, uno scrosciare di applausi, urla gioiose, voglia di stare insieme, per un attimo si ritorna alle atmosfere di pace amore e libertà di woodstokiana memoria.

Neil Young è vestito di nero, jeans, e maglia con scritta “ CBC Radio Canada” tanto per far capire che il suo Canada lo porta ovunque, lui il più americano degli artisti canadesi ora è lì sul palco con un cappello nero da cowboy, di fronte a una folla gioiosa che acclama il suo nome, il chitarrista Frank “Poncho” Sampedro indossa una bella maglia con il volto di Jimi Hendrix, Billy Talbot (basso) con una lunga camicia bianca e Ralph Molina seduto dietro la sua batteria con il solito berretto messo al contrario.

Pochi fronzoli per Young e soci, si inizia subito, e allora è Love and Only Love tratta da Ragged Glory del 1990, segno tangibile che stasera il viaggio nella musica del buon vecchio Neil sarà davvero trasversale, dagli inizi coi Crazy Horse nel 1969, fino ai pezzi del suo ultimo monumentale lavoro Psychedelic Pill. La gente canta e danza, è un’atmosfera bella, genuina, festosa, Neil Young si diverte con la sua band, si vede lontano un miglio che è in forma, grintoso, tirato a lucido nonostante i problemi di salute incontrati nella sua lunga carriera: dalla dipendenza da droghe e alcool da cui si è liberato solo un paio di anni fa (con una iniziale crisi creativa), all’aneurisma cerebrale che non lo ha minimamente scalfito. Neil è scatenato, la sua chitarra risuona come un eco proveniente da una dimensione che non sembra umana, la sua voce è quella di un tempo, dolcissima, fragile che sembra spezzarsi un attimo prima della perfezione, ed è proprio questa fragilità, questa unica caducità della sua voce, che ha reso le sue canzoni pezzi memorabili, incidendole nella storia della musica.

Si prosegue senza sosta, con Powderfinger e Psychedelic Pill, pezzo che dà il titolo al suo ultimo lavoro, poi Walk Like a Giant con un finale psichedelico incredibile grazie agli effetti distorti della chitarra di Young e alla batteria di Molina che simula i passi pesanti del gigante. Neil Young & Crazy Horse stanno dando il meglio, si guardano, si cercano mentre suonano, si stanno divertendo un mondo, con grande grinta. È un concerto vecchio stampo, non ci sono spie, monitor, non portano auricolari, nulla, tutto avviene come una volta, con grande naturalezza, quella che solo i grandissimi possono portare sul palco.

Dopo questa prima parte elettrica, i Crazy Horse lasciano il palco al solo Neil Young, qui in quella veste da loner che lo ha caratterizzato e che lo ha reso celebre. Neil è felice, si vede, imbraccia la sua chitarra acustica, l’armonica vicino la bocca, tutti tra la folla, sanno che qualcosa di toccante sta per arrivare, e allora ecco che Young va a pescare nel suo repertorio fatto di 35 dischi e da Harvest, suo più grande successo commerciale, tira fuori la meravigliosa Heart of Gold, è una versione commovente e c’è chi davvero si emoziona a tal punto da trattenere a stento le lacrime, tutti cantano, la voce di Young si fonde con quella del pubblico, l’armonica, dolcissima ci culla in un viaggio onirico che sembra non avere mai fine, è la volta di Blowin’ in the Wind cover di Bob Dylan e vero e proprio manifesto pacifista, che le migliaia di persone presenti cantano con passione. La parte acustica del concerto finisce con Neil Young curvo sul pianoforte, il regalo per il pubblico di Roma è l’inedita Singer Without a Song, dolcissima ballata sussurrata da Young con i Crazy Horse ora sul palco ad unire le loro voci in questa meraviglia della musica.

Il concerto prosegue senza sosta e si elettrizza di nuovo, non c’è sosta, è incredibile come Neil possa andare avanti senza nessuna fatica, l’energia che la musica e che il pubblico gli trasmette è più forte di tutto, mi domando quanto possa resistere e spero in cuor mio che questo concerto non finisca mai.

Ramada Inn è l’altro lunghissimo pezzo del suo ultimo disco, una meravigliosa cavalcata musicale, un tappeto sonoro arabescato dagli interminabili soli di chitarra intessuti dal canadese. Il pubblico si scatena con Sedan Delivery, martellante e rock come poche cose sentite prima d’ora. L’apice arriva naturalmente, con quello che è l’inno di libertà realizzato da Neil Young: Rockin’ in the Free World, una delle canzoni più suonate dai musicisti di tutto il mondo, un martello, un maglio perforante che si staglia nel cielo di una Roma che oggi diventa più incantevole del solito, una versione devastante di Rockin’ che viene interrotta e ripresa per ben tre volte, il pubblico in delirio che pensa la canzone sia finita e invece il ritornello, travolgente, torna ancora e ancora e ancora una volta, travolgente, immenso, come l’emozione che mi pervade. Il concerto sembra finito, Young urla un “Crazy Horse!” per rendere omaggio alla sua band, i compagni di una vita, quelli che lo hanno accompagnato lungo gran parte del suo viaggio musicale, lui li ha chiamati così, e non ha mai spiegato bene il perché, ora è qui davanti a noi con il “Cavallo Pazzo”, l’ultima volta che salì su un palco della capitale fu nel lontano 1982, guarda caso sempre qui all’Ippodromo delle Capannelle, per i Crazy Horse invece è la prima volta a Roma.

I quattro escono dal palco, il pubblico li acclama a gran voce per un bis, tutti sanno che usciranno per suonare ancora, per regalare un’altra emozione a questa gente, tutti lo sanno, ma continuano ad invocarli quasi fosse un rituale magico. Eccoli rientrare sul palco, Neil imbraccia ancora la sua Gibson nera, bellissima e qui accade qualcosa di inconcepibile, inconcepibile perché pensavo di aver raggiunto l’apice della mia personale soddisfazione, insomma non avrei mai creduto che si potesse fare di meglio, invece Neil Young & Crazy Horse sfornano la monumentale Cortez the Killer capolavoro tratto da Zuma, disco del 1975, uno dei meno commerciali di Young, vero capolavoro e primo disco che vede per la prima volta la partecipazione di Frank “Poncho” Sampedro alla chitarra. Una canzone il cui testo racconta del genocidio azteco in Messico da parte dello spagnolo Hernàn Cortés.

Pubblico in delirio ed io con il groppo in gola per questa versione così sublime, così ipnotica caratterizzata da un intro di chitarra di circa tre minuti, farcita dal cantato dolce e furioso allo stesso tempo di Young che si dipana nello spazio e nel tempo come qualcosa di divino, surreale, immaginifico e perturbante. La conclusione dello show è Cinnamon Girl primo pezzo di Everybody Knows This is Nowhere, correva l’anno 1969 ed era la prima volta che Neil Young e i Crazy Horse realizzavano qualcosa insieme. È tutto terribilmente Rock! Due ore e dieci minuti di Rock nel vero senso della parola. Raramente ho visto tanta energia su un palco, tanta voglia di suonare insieme e di trasmettere emozioni al pubblico, Neil Young a quasi 70 anni suonati ha ancora tanto da insegnare a band magari anche brave, osannate, che riempiono gli stadi. Il vecchio Neil li mette ancora tutti in fila, nessuno ha il suo carisma, e non c’entra niente l’età, qui è questione di stile.

Tracklist del concerto:

1. Love and Only Love 2. Powderfinger 3. Psychedelic Pill 4. Walk Like a Giant 5. Hole in the Sky 6. Red Sun 7. Heart of Gold 8. Blowin’ in the Wind (B. Dylan cover) 9. Singer Without a Song 10. Ramada Inn 11. Sedan Delivery 12. Surfer Joe and Moe the Sleaze 13. Rockin’ in the Free World

Encore 14. Cortez the Killer 15. Cinnamon Girl

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