AFRICAN INFERNO di Piersandro Pallavicini
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Il razzismo di casa nostra
Recensione di Osvaldo Contenti
Un vita divisa in due. Peggio, fatta a pezzi da una separazione coniugale che trasforma l’agiato Sandro Farina, il protagonista del romanzo, in un quasi diseredato. Per di più, squassato dai sensi di colpa per quell’unico errore commesso, dall’impossibilità di vedere l’amatissima figlia Chiara quando e come vorrebbe e da quello schifo di appartamento che condivide con due giovani laureati africani. Assieme ai quali, e con altri quasi fratelli dalla pelle scura, proverà sulla sua pelle il significato di termini come “intolleranza” e “razzismo”, che anche la ricca e operosa Pavia, aldilà del perbenismo di facciata, sa pronunciare con inaudito spregio dei diritti naturali di ogni essere umano. Una feroce fotografia della provincia padana che Piersandro Pallavicini, all’inizio di questo diario in veste romanzata, ci butta in faccia con fare aggressivo. E con un linguaggio crudo, scarno, arrabbiato e nervoso molto simile a quello dell’On the road di Jack Kerouac, manifesto del “mal di vivere” della generazione anni 50 e della cosiddetta beat generation. Ma con lo scorrere delle pagine di AFRICAN INFERNO (ed. Feltrinelli) la prosa, inizialmente un po’ troppo spontanea, si fa più attenta e ponderata, sciorinando un’analisi approfondita del profilo psicologico dei tanti personaggi che popolano le 331 pagine del romanzo. Poi arrivano anche i flashback e il racconto assume un taglio cinematografico. Per cui, il romanzo, più che in capitoli, sembra dividersi in scene e quadri componibili, che a seconda delle vicende narrate si possono ricomporre in un insieme a volte un po’ disomogeneo, ma tuttavia sufficiente a svelarci le dinamiche di un microcosmo multirazziale che, per analogia, possiamo adottare per leggere i cambiamenti in atto nell’intero territorio nazionale. Infine, quasi verso la conclusione del romanzo, arrivano le pagine migliori. L’autore, liberatosi dal lungo approccio di un libro-sfogo, finalmente prende coscienza di poter svolgere il proprio vissuto in un piano narrativo sempre arrabbiato, ma diluito con eleganza descrittiva, con analisi psicologiche complesse e con una minuzia di particolari comportamentali che prima ci venivano negati. Il che, stilisticamente, divide il libro in due parti distinte, spezzate come il suo protagonista, il quale, solo verso la conclusione del diario-racconto, riesce a rivolgersi ai lettori più che a se stesso.