Tre storie raccontate da altrettanti maestri del cinema, Olmi, Kiarostami e Loach, che si intrecciano in un unico film, senza la solita (e comoda) divisione tra episodi differenti. Al contrario, con vicende sviluppate sul comune binario di un tragitto in treno, dal centro Europa a Roma, che spesso rende intercomunicanti i personaggi tratteggiati da ciascun autore. Un sorta di racconto collettivo, insomma, che già nel suo impianto formale rivela un impegno ammirevole nel voler fondere sensibilità diverse in un afflato corale. Un esperimento dagli esiti assolutamente felici e sorprendenti intitolato “Tickets” che, tra le righe, ma neanche tanto, inanella il vissuto di chi quei biglietti se li può permettere e chi no.
Entrando nel dettaglio, Ermanno Olmi compone un delicato e introspettivo ritratto di un anziano professore (Carlo Delle Piane) che tra realtà e immaginazione vagheggia una possibile intesa affettiva con una giovane scrittrice (Valeria Bruni Tedeschi). Lo smarrimento del vecchio di fronte a una simile prospettiva lo induce a miscelare visioni reali e fantasiose, ricordi e aneliti proiettati a un agognato futuro. Poi, l’autore, per sublimare il tutto, gioca sui primissimi piani dei due protagonisti, rendendo figurativamente possibile quell’amore che possibile non è. Ed è allora che avviene il miracolo. Perché tra lo sguardo dell’uomo anziano e quello della giovane donna sembra esservi già effettivo amore, ma in una declinazione traducibile solo nell’impulso del desiderio, che trasforma il saluto in una carezza e l’addio in un bacio. Infine, il regista bergamasco (nato a Treviglio nel ’31), tornando su un tema a lui caro, tramite gli occhi del vecchio professore osserva e giudica i nuovi ricchi, che volendo rimuovere il loro passato di povertà, tendono a distanziarsi dai nuovi poveri. In questo caso da degli immigrati albanesi che viaggiano in piedi nell’angusto ghetto del passaggio tra una carrozza e l’altra del treno. Una distanza che diviene emblematica di una società italiana sempre più lontana all’etica dell’accoglienza, dimentica dei secolari trascorsi dei suoi milioni di emigranti. Una cecità culturale che può sfociare nell’arroganza e nel disprezzo anche per un prossimo non aderente ai cliché del pensiero comune.
Come appare evidente nell’episodio girato dal regista iraniano Abbas Kiarostami, dove una matrona-padrona (Silvana De Santis), vedova di un generale, vessa e umilia in ogni modo un ragazzo (Filippo Trojano) che deve assisterla in quel denigrante servizio civile in quanto obiettore di coscienza. Un episodio che, quindi, partendo da un substrato psicologico, si insinua nella povertà intellettuale di una parte dell’odierna borghesia italiana, speriamo minoritaria, convinta che l’apparire sia l’essenza dell’essere e che la soddisfazione del proprio ego escluda ogni etica di comportamento e rispetto nei confronti di chi la pensa diversamente.
Denuncia che diviene ancor più forte e approfondita nell’episodio diretto da Ken Loach. Sicuramente il più meritevole dell’intero trittico di “Tickets”. Perché capace di tradurre con lessico contemporaneo e intelligibile la più stretta attualità. Difatti, il regista inglese, in un solo colpo mette al tappeto tutta una serie di luoghi comuni che inquadrano gli ultras del calcio, specialmente quelli anglosassoni, come una frangia di giovani scapestrati dediti ad una violenza indiscriminata e ammantata da un tifo calcistico solo di facciata. Per scardinare questa serie di prevenzioni, Loach analizza il comportamento di alcuni supporter della squadra del Celtic. E tra loro distingue i più esagitati e i più riflessivi. Quelli inclini alla violenza e quelli disposti a ragionare. Il tutto sullo sfondo di una disputa per un biglietto ferroviaro, che crea tensioni tra il gruppo degli ultras e una povera famiglia di albanesi che desidera ricongiungersi al capofamiglia che lavora in Italia. Ma cos’è più grave a quel punto, sembra chiederci Loach, poter perdere una partita di calcio o negare a una famiglia la possibilità di riabbracciare il padre? Un piccolo ma significativo dilemma moderno attraverso il quale gli ultras del Celtic ritrovano tutta la loro umanità, la loro capacità di abbandonare lo sviscerato amore per la squadra per un più alto amore verso il prossimo. Loach, quindi, con questo episodio ci avverte di ragionare a fondo prima di emettere condanne facili anche contro i settori giovanili che appaiono più violenti. Forse perché a quei giovani non era mai stata fornita alcuna motivazione per esprimere la loro maturità. Un vuoto di motivazioni che non può vederci esclusi sul piano delle responsabilità, se nella vita di ogni giorno e nei mass media parliamo e argomentiamo di un continuo nulla che ci allontana dai problemi della vita reale.